Perché si parli di violazione rileva che il contribuente sia per lungo tempo sottoposto a giudizio
L’art. 4 protocollo n. 7 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo prevede che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato”.
Questa disposizione, per lungo tempo trascurata nelle aule giudiziarie del nostro Paese, ha ricevuto una significativa attenzione per alcune decisioni della Corte europea dei Diritti dell’uomo, che hanno significativamente ampliato questo principio e ne hanno determinato una possibile applicazione nell’ambito dei reati tributari. Si ricorda che secondo la CEDU il citato art. 4 va inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo “illecito” nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi (Zolotoukhin c. Russia del 10 febbraio 2009), e ciò significa che perché vi sia identicità del fatto perseguito dal medesimo ordinamento in sedi diverse non è necessaria una identità delle accuse in tutti i loro elementi, ma più semplicemente che i fatti ascritti al soggetto giudicato in più procedimenti siano riconducibili alla stessa condotta.
Detto in breve, perché non possa dirsi violato il principio del ne bis in idem non è sufficiente che sui fatti oggetto di diversi procedimenti corra una diversità quale che essa sia, ma occorre che vi sia una radicale distinzione fra le condotte sottoposte a giudizio, nel senso che esse non offendano il medesimo bene giuridico, abbiano una diversa connotazione naturalistica, si collochino in ambiti temporali diversi, siano diverse le persone fisiche sottoposte a giudizio.
In secondo luogo, la CEDU utilizza una nozione sostanziale di materia penale e, dunque, di reato e di pena, escludendo rilievo alla circostanza che l’illecito o la misura sanzionatoria siano o meno considerati come reato o come pena nel singolo ordinamento nazionale: lo scopo di tale nozione sostanziale di materia penale è, infatti, assicurare la massima estensione delle garanzie convenzionali annullando gli effetti di un’eventuale “frode delle etichette”. In particolare, per quanto concerne la nozione di “pena”, i giudici di Strasburgo riconoscono speciale importanza al legame della misura nazionale con la condanna per un’infrazione ed alla natura ed allo scopo della misura stessa, che deve essere punitivo (o repressivo) e dissuasivo, invitando anche a valutare quale sia la gravità della misura, nel senso che la sua particolare afflittività obbligherebbe l’interprete ad attribuire alla stessa la qualifica di sanzione criminale (Welch v. Regno Unito del 9 febbraio 1995 e Sud Fondi c. Italia del 20 gennaio 2009).
Alla luce di queste considerazioni un problema di sovrapposizione di sanzioni e quindi di ne bis in idempuò porsi con riferimento ad alcuni illeciti tributari e le rispettive infrazioni fiscali e, in particolare, in relazione ai rapporti fra l’illecito amministrativo di cui all’art. 13 comma 1 del DLgs. 471/1997 e gli illeciti penali di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del DLgs. 74/2000.
La Cassazione si è pronunciata in senso contrario (Cass. SS.UU. nn. 37424 e 37425 del 2013) ed in diverse occasioni ha sottolineato, in termini più generali, come non possa applicarsi la previsione di cui all’art. 649c.p.p., nella parte in cui vieta di sottoporre ad un nuovo processo penale per il medesimo fatto un soggetto già giudicato, all’ipotesi in cui il singolo sia destinatario di sanzioni applicate dal giudice penale e da un’autorità amministrativa (Cass. n. 25815/2016).
Di recente, la stessa Corte di Giustizia Ue (cause riunite C-217/15 e C-350/15) ha affermato che per poter rinvenire una violazione del divieto di ne bis in idem occorre che le sanzioni penali e tributarie siano dirette nei confronti dello stesso soggetto, il che, nell’ipotesi di omesso versamento dell’IVA e delle ritenute, di frequente non si verifica posto che, mentre l’illecito fiscale viene contestato ad una società, il reato tributario è attribuito al soggetto persona fisica che gestisce le predette imprese.
A tali ragioni che ostano significativamente all’applicazione del divieto del ne bis in idem nell’ambito dei rapporti fra illeciti tributari e reati fiscali, la Cassazione, con la sentenza n. 6993 del 14 febbraio scorso, ha aggiunto un’ulteriore considerazione. Riprendendo una delle ultime decisioni della CEDU sul tema (A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016), la Cassazione aggiunge, fra le condizioni per cui si possa parlare di violazione del ne bis in idem, la circostanza che il processo penale e quello amministrativo si svolgano in tempi distinti e lontani fra loro – così che il contribuente si trovi ad essere per lungo tempo sottoposto ad un giudizio per i medesimi fatti –, nonché la circostanza che la sanzione complessivamente applicata al termine dei due giudizi sia eccessivamente gravosa per il privato.
Si ricorda inoltre che non potrà mai parlarsi di violazione del ne bis in idem, quando la condotta penalmente rilevante presenti, rispetto alla semplice evasione di imposta, un ulteriore profilo di comportamento fraudolento (come accade, ad esempio, nelle fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 del DLgs. 74/2000).