Nel momento in cui viene recuperato a tassazione un componente positivo o negativo di reddito, da ciò possono emergere problemi di doppia imposizione, su cui la prassi e la giurisprudenza sovente si sono soffermate.
L’Agenzia delle Entrate, in tema di competenza fiscale (circ. Agenzia Entrate 4 maggio 2010 n. 23 e 2 agosto 2012 n. 31), ha, ormai da tempo, sostenuto che a fronte del recupero a tassazione del costo in quanto dedotto nell’anno non di competenza, spetta il riconoscimento delle maggiori imposte pagate per la mancata deduzione del medesimo nell’anno corretto.
Emerge come intuibile il problema del “come” detto riconoscimento possa avvenire. Salva la possibilità dell’istanza di rimborso e della dichiarazione integrativa a favore del contribuente (ora possibile entro i termini di decadenza dall’accertamento, grazie alle modifiche del DL 193/2016), le Entrate, nella circolare n. 31 del 2012, hanno espressamente ammesso che in sede di adesione (ma lo stesso deve ritenersi possibile nella mediazione e nella conciliazione giudiziale) ci possa essere una sorta di compensazione, per restare nell’esempio di cui sopra, tra imposte pagate in eccesso (per la mancata deduzione nell’anno di competenza) e imposte non pagate (per l’anno oggetto di accertamento, che ha recuperato il costo in quanto dedotto nell’anno sbagliato).
Una tesi che ritenesse possibile il menzionato ragionamento per il solo caso della competenza fiscale sarebbe censurabile: la doppia imposizione è infatti vietata in generale dall’art. 163 del TUIR, che, è sempre bene ribadirlo, rappresenta una norma che attua in via diretta l’art. 53 della Costituzione.
Il tema si può porre in molte ipotesi diverse dalla competenza fiscale, basti pensare alla perdita su crediti dedotta con successivo recupero del credito (recupero che, fiscalmente, dà luogo ad una sopravvenienza attiva imponibile), al disconoscimento delle quote di ammortamento (succede infatti che l’Erario le disconosca in quanto il bene non avrebbe dovuto essere capitalizzato, circostanza che, automaticamente, causa la necessità dell’intera deduzione del costo nell’anno del suo sostenimento).
Un’ipotesi interessante riguarda il recupero delle quote di accantonamento.
La Corte di Cassazione ha sancito che, se si tratta di accantonamenti indeducibili, “da un lato, le quote accantonate costituiscono variazioni in aumento del risultato civilistico rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa imponibile, ex art. 52 (ora art. 56) TUIR, mentre, dall’altro lato, l’utilizzo del fondo dovrà essere ricompreso tra le variazioni in diminuzione del risultato di periodo in cui tale utilizzo si è manifestato” (Cass. 11 ottobre 2017 n. 23812).
A dire il vero, il caso della sentenza è un tantino particolare, in quanto, come sembra evincersi dalla pronuncia di appello (C.T. Reg. Torino 1° aprile 2010 n. 29/38/10), a quanto pare il contribuente, da un lato, aveva dedotto gli accantonamenti, ma, dall’altro, aveva sterilizzato la sopravvenienza attiva derivante dall’utilizzo del fondo tramite una variazione in diminuzione, variazione che era poi stata disconosciuta.
Tanto premesso, appare evidente il ragionamento, condivisibile, della Cassazione: se, per una qualsivoglia ragione, ad esempio ai sensi dell’art. 107 comma 4 del TUIR, l’accantonamento è indeducibile, occorre una variazione in aumento in dichiarazione; poi, quando il fondo viene utilizzato, per scongiurare la doppia imposizione occorre sterilizzare fiscalmente la sopravvenienza mediante una variazione in diminuzione.
Ai fini che ci occupano, è irrilevante che la variazione in aumento sia stata effettuata dal contribuente o dall’Agenzia delle Entrate in sede di accertamento.
Se l’accantonamento è recuperato dall’ufficio, come detto dalla Cassazione spetta il riconoscimento delle maggiori imposte che il contribuente ha pagato tassando la sopravvenienza quando il fondo è stato utilizzato.
Si ritiene tale compensazione possa avvenire non solo in sede di accertamento con adesione, ma pure nel processo tributario.