La Cassazione ripropone l’orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite
La Cassazione, con la sentenza n. 8041 depositata ieri, ribadisce che le pene accessorie ai reati tributari devono avere una durata da uniformare, ex art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta. Ciò in relazione al caso di due imputati condannati a tre anni di reclusione per emissione di fatture false ex art. 8del DLgs. 74/2000, utilizzazione in dichiarazione di fatture false ex art. 2 del DLgs. 74/2000 e di occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 del DLgs. 74/2000, unificati dal vincolo della continuazione.
Si disponevano, inoltre, tutte le pene accessorie ex art. 12 del DLgs. 74/2000, tra cui, l’interdizione dai pubblici uffici per tre anni e, per un anno, l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione e l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria. Tali durate venivano contestate in Cassazione dal competente procuratore generale. Contestazione ritenuta fondata.
Si ricorda, infatti, che, ai sensi dell’art. 12 del DLgs. 74/2000, la condanna per i delitti tributari importa: l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; l’incapacità di contrattare con la P.A. per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni; l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni; l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria; la pubblicazione della sentenza a norma dell’art. 36c.p. La condanna per taluno dei delitti previsti dagli artt. 2, 3 e 8 del DLgs. 74/2000 importa altresì l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni.
Per la gran parte delle ricordate pene accessorie, quindi, è previsto un limite minimo “e” massimo. In base all’art. 37 c.p., quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa “non” è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e massimo stabiliti per ciascuna specie.
Secondo un primo orientamento, allorché la durata della pena accessoria sia individuata con la previsione di un minimo e di un massimo, deve essere il giudice di merito, nell’ambito dell’intervallo temporaleprevisto, a stabilirne la durata concreta utilizzando i criteri ex art. 133 c.p.; non rilevando, quindi, la prima parte dell’art. 37 c.p. (cfr. Cass. nn. 35729/2013, 17702/2013 e 35861/2011). Secondo altra ricostruzione, invece, rientrerebbe nella nozione di pena accessoria non espressamente determinata dalla legge anche quella per la quale è previsto solo un minimo e un massimo, sicché, in tali casi, la durata della pena accessoria andrebbe parametrata dal giudice a quella della pena principale inflitta, ex art. 37 primo periodo c.p. (cfr. Cass. nn. 3890/2017, 29397/2016 e 40360/2015).
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, nella sentenza n. 6240/2015, hanno aderito a questo secondo orientamento, divenuto decisamente prevalente, ma non privo di voci contrarie (cfr. Cass. n. 4916/2017).
Ed anche secondo la sentenza in commento – a parte il rilievo che quest’ultima decisione, seppure successiva all’arresto delle SS.UU., non sembra confrontarsi con quanto in esso deciso – non vi sarebbero ragioni per discostarsi da tale indirizzo interpretativo. L’art. 37 c.p. infatti, detta un criterio generale di applicazione delle pene accessorie, la cui durata, quando “non espressamente determinata”, è legata a quella della pena principale inflitta. La disciplina dell’art. 37 c.p., quindi, troverebbe applicazione non solo quando la pena accessoria sia comminata attraverso la previsione di un limite minimo “o” di un limite massimo, ma anche quando, come nella specie, la previsione legale stabilisca il limite minimo “e” il limite massimo.
D’altra parte, l’interpretazione contraria determinerebbe una eccessiva contrazione dell’ambito applicativo dell’art. 37 c.p., che verrebbe limitata alle ipotesi di pene accessorie disciplinate in assenza di qualsiasi limite edittale nel minimo o nel massimo, con svilimento della rilevanza della previsione come criterio generale.
A fronte di ciò, nel caso di specie, avrebbe dovuto applicarsi il principio secondo cui, nel caso di pluralità di reati unificati dal vincolo della continuazione, la durata della pena accessoria secondo il criterio fissato dall’art. 37 c.p. va determinata con riferimento alla pena principale inflitta per la violazione più grave, ma con l’eccezione dell’ipotesi di continuazione fra reati omogenei (come nella specie), nella quale l’identità dei reati unificati comporta necessariamente l’applicazione di una pena accessoria per ciascuno di essi, di modo che la durata complessiva va commisurata all’intera pena principale inflitta con la condanna, compreso l’aumento per la continuazione, ferma la necessità di rispettare il limite massimo previsto per la specifica sanzione accessoria da applicare. La durata delle pene accessorie è, quindi, rideterminata a tre anni.