Assolti dal reato di omessa dichiarazione gli amministratori della capogruppo italiana

Di Maria Francesca ARTUSI e Alberto TRAINOTTI

Il delitto di omessa dichiarazione, previsto dall’art. 5 del DLgs. 74/2000, può essere commesso solo da chi, secondo la legislazione fiscale, è obbligato alla presentazione della dichiarazione stessa. Per verificare la residenza fiscale di una società estera controllata da una capogruppo italiana dovrà essere accertato dove e da chi vengono svolte le attività di “ordinaria amministrazione”, a prescindere dalle direttive strategiche riconducibili alla holding.

Tale tema tocca la corretta definizione del concetto di “esterovestizione” e le modalità per il suo accertamento.
Ai sensi dell’art. 73 comma 3 del TUIR, ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Laddove, dunque, una società risulti solo fittiziamente stabilita in altro Stato dell’Ue, ma la sua direzione effettiva coincida con l’operatività di altra società italiana, i suoi amministratori sono tenuti a presentare le dichiarazioni, la cui omissione può assumere rilevanza anche penale. Viceversa, nel caso di un gruppo di società, legittimato al prelievo fiscale non sarà lo Stato della controllante da cui promanano meri atti di indirizzo, ma quello in cui gli amministratori delle controllate attuano tali direttive e, genericamente, conducono le “quotidiane” attività di gestione.

Anche la normativa europea lega la valutazione del fenomeno della “costruzione di puro artificio” al criterio della presenza economica e di commerciabilità delle transazioni, per la cui individuazione deve aversi riguardo alla sede di direzione effettiva, alla presenza tangibile della società, nonché al rischio commerciale da essa assunto, a cui si aggiunge la vantaggiosità fiscale ottenuta dalla sua allocazione in sede estera.
Inoltre, la direttiva 2016/1164/UE, in materia di contrasto all’elusione fiscale, introduce la nozione di “costruzioni non genuine”, facendo riferimento a società che non siano poste in essere per valide ragioni commerciali che rispecchiano la realtà economica, ma costituite al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale in contrasto con l’oggetto o la finalità della disciplina applicabile.

Il Tribunale di Milano ha affrontato un caso in cui veniva contestata l’omessa dichiarazione di due società estere, appartenenti a un gruppo con holding italiana, giungendo però all’assoluzione di tutti gli amministratori imputati (Trib. Milano 23 settembre 2017 n. 6996).

Nel ritenere che non fosse integrata la contestata esterovestizione, tale sentenza ha richiamato il criterio del place of effective management contenuto anche nel noto caso “Dolce e Gabbana” (Cass. n. 43809/2015), che va contemperato nelle ipotesi in cui le diverse società appartengano a un medesimo gruppo, poiché i rapporti tra controllante e controllate, a maggior ragione se connotati da un’attività di direzione e coordinamento, implicano di per sé un fisiologico potere di ingerenza della holding che coinvolge ogni profilo della vita aziendale delle controllate.
Inoltre, la scelta di delocalizzare una società all’estero (libertà di stabilimento) deve trovare tutela laddove ciò corrisponda a una “genuina attività economica”, restando indifferente che la ragione sottesa alla scelta geografica sia o meno relativa alla convenienza fiscale (cfr. Corte di Giustizia CE 12 settembre 2006 causa C-196/04).

I giudici, dunque, concentrano l’attenzione sulla gestione degli “affari quotidiani” dell’ente che si sostanziano, ad esempio, nell’attività di organizzazione e controllo dei processi e dei fattori produttivi, nella gestione del personale, nelle relazioni con i terzi, nella stipula dei contratti inerenti la gestione ordinaria, nell’effettiva disponibilità di conti correnti da parte dei country managers.
Dalle consulenze tecniche e dalla documentazione prodotta è così emerso, oltre a un’attività propria di ciascuna delle società estere, il fatto che i consigli di amministrazione si riunissero presso la sede legale in Olanda e in quello Stato risultassero aperti conti correnti intestati alle società e l’esistenza di una struttura recettiva di documenti e corrispondenza.

Gli elementi tenuti in considerazione dal giudice sono per molti aspetti gli stessi che sono stati valorizzati nella sentenza n. 27113/2016 della Cassazione civile: la constatazione che la holding estera avesse sede in Francia e in quello Stato fosse assoggettata a imposizione, perché lì risiedevano gli amministratori e venivano adottate le decisioni fondamentali.
Per quanto riguarda l’attività di direzione posta in essere dagli amministratori della società italiana, il Tribunale ricorda le norme civilistiche in materia di gruppi che consentono di esercitare la direzione e il coordinamento, senza che ciò si trasfiguri automaticamente in un’amministrazione di fatto.

Se, dunque, una società non può essere considerata “esterovestita”, non sussiste alcun obbligo di presentare la dichiarazione in Italia e, conseguentemente, non può essere integrato il reato di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000.