Accade quando tali distrazioni siano «ab origine» qualificabili come appropriazione indebita
In un caso in cui era stata contestata l’associazione per delinquere, unitamente a svariate ipotesi di bancarotta fraudolenta (artt. 216 e 223 del RD 267/1942) e di riciclaggio e di impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita (artt. 648-bis e 648-ter c.p.), la Cassazione torna su alcuni principi sia in relazione ai rapporti tra queste diverse fattispecie criminose, sia sul tema della conseguente confisca.
La vicenda traeva origine da un fallimento connesso ad un complesso meccanismo fatto di società cartiere e di altre società “conniventi”, che simulavano ordinativi e forniture allo scopo di ottenere anticipazioni bancarie e sottrarre fondi alle casse societarie. Per alcuni dei numerosi imputati – imprenditori e professionisti – era stato ordinato il sequestro di centinaia di migliaia di euro.
Con la sentenza n. 5459 depositata ieri, i giudici di legittimità ricordano che il delitto di riciclaggioriguardante il provento del reato di bancarotta fraudolenta è configurabile anche nell’ipotesi di distrazioni fallimentari compiute prima della dichiarazione di fallimento, in tutti i casi in cui tali distrazioni siano “ab origine” qualificabili come appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 c.p. (cfr. Cass. n. 33725/2016). Quando la società, a danno della quale l’agente ha realizzato la condotta appropriativa – che diviene, così, distrattiva –, venga dichiarata fallita, la bancarotta “assorbe” il reato di appropriazione indebita e quest’ultima diviene un elemento costitutivo del reato fallimentare (cfr. Cass. n. 572/2017). Si tratta, in pratica, di una progressione criminosa, che lascia inalterato il riciclaggio rispetto alle somme sottratte, a prescindere dalla qualificazione della condotta come “appropriativa” o “distruttiva” (reato presupposto).
Vanno, però, distinti il ruolo di “distrattore” dei beni delle società fallite da quello di “riciclatore” degli stessi, in forza della clausola di sussidiarietà prevista negli artt. 648-bis e 648-ter c.p., “fuori dei casi di concorso nel reato”; ciò anche quando si tratti, come nel caso in esame, di un’associazione per delinquere finalizzata a tali condotte.
Interessante notare che il giudice per le indagini preliminari aveva, invece, escluso ogni contestazione per reati tributari connessi all’emissione e all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, dal momento che lo scopo di tali condotte era esclusivamente quello di realizzare lo svuotamento delle casse aziendali e non si rinveniva, pertanto, il dolo specifico di evasione (artt. 2 e 8 del DLgs. 74/2000).
Per quanto riguarda il sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme depositate su un conto corrente bancario, l’accertamento si differenzia a seconda della qualificazione del provvedimento come “diretto” o “per equivalente”. La confisca diretta del denaro depositato su un conto corrente presuppone sempre che sia dimostrato che il profitto del reato è stato versato su quel conto e che pertanto sussista la prova del nesso di pertinenzialità tra denaro e profitto o prezzo del reato; mentre, qualora tale prova faccia difetto, la confisca finirebbe per assumere i connotati della confisca di valore (cfr. Cass. SS.UU. n. 31617/2015).
Agli effetti della confisca, dunque, è l’accresciuta consistenza delle somme a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario. Nel caso di specie, in effetti, il giudice di merito aveva evidenziato, nelle motivazioni con cui disponeva il sequestro, l’accrescimento del conto corrente e la riconducibilità dello stesso all’attività delittuosa.
A fronte di un’espressa contestazione da parte di uno dei ricorrenti, la Cassazione ritiene inoltre che il delitto di riciclaggio si distingua da quello di ricettazione (art. 648 c.p.) non con riferimento ai reati presupposto, ma in base agli elementi strutturali, quali l’elemento soggettivo – che implica il dolo specifico dello scopo di lucro nella ricettazione e il dolo generico nel delitto di riciclaggio – e l’elemento materiale, con particolare riguardo alla idoneità ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene, quale indice caratteristico delle condotte di cui all’art. 648-bis c.p. (cfr. anche Cass. n. 48316/2015). Sarà dunque compito del giudice di merito accertare tale idoneità, a fronte della quale il concreto “intento di lucro” può valere a rafforzare ma non ad escludere il dolo generico del riciclaggio.
Sempre con riguardo all’elemento soggettivo di quest’ultimo reato, la sentenza in commento precisa anche la necessità della conoscenza della provenienza illecita dei fondi oggetto dell’illecito reinvestimento, che, nel caso di specie, emergeva chiaramente dai verbali delle assemblee dei soci.