Il principio non vale in capo al Tribunale che riesamina il sequestro preventivo
È orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale, ai fini dell’individuazione del superamento delle soglie di punibilità previste da quasi tutti i reati tributari, sia compito del giudice penale accertare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può anche sovrapporsi ed entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (cfr., tra le altre, Cass. nn. 39379/2016 e 21213/2008).
In particolare, è stato precisato che, il giudice penale può ricorrere ai verbali di constatazione della GdF, nonché all’accertamento induttivo dell’imponibile da parte degli Uffici finanziari quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state omesse o irregolarmente tenute. Esso, quindi, può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull’informativa della GdF che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso un’indagine sui dati di mercato, che sull’accertamento induttivo dell’imponibile operato in caso di omessa tenuta o generale inattendibilità della contabilità. Ciò a condizione che non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi evidenziati, ma proceda a specifica e autonoma valutazione degli elementi descritti comparandoli con quelli in altro modo eventualmente acquisiti (cfr. Cass. n. 4516/2017).
La Cassazione n. 273/2018, ora, riprende e approfondisce tali profili in relazione a un caso in cui, a fronte dell’omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette, la soglia di punibilità di 50.000 euro, ex art. 5 del DLgs. 74/2000, doveva considerarsi superata secondo i calcoli della GdF, ma non a giudizio dell’Agenzia delle Entrate; ciononostante, veniva disposto provvedimento di sequestro preventivodel profitto conseguito. Rispetto ad esso si contestava come, seppure sia vero che il giudice penale possa discostarsi dalla determinazione operata dall’Agenzia delle Entrate, occorrerebbe a tal fine un’adeguata motivazione che, nella specie, non poteva considerarsi esistente, con conseguente nullità del provvedimento.
Secondo la Suprema Corte tale motivo di ricorso è manifestamente infondato. Si osserva, in primo luogo, come, a prima vista, sembrerebbe logico ritenere definitivamente accertata, anche ai fini penali, se inferiore alla soglia, l’imposta cristallizzata in un accertamento dell’Ufficio divenuto definitivo, per mancata impugnazione, per adesione o in seguito a una conciliazione giudiziale. Nei casi in cui la stessa Amministrazione finanziaria abbia determinato un’imposta evasa inferiore alla soglia penalmente rilevante, sarebbe irragionevole ipotizzare un intervento del giudice penale il quale rideterminasse l’imposta evasa in misura superiore rispetto a quella accertata dall’Ufficio, così da configurare un’ipotesi delittuosa.
Tuttavia, i rapporti tra procedimento penale e tributario rimangono fondati sul principio dell’autonomia e del tendenziale parallelismo. Il giudice penale, in particolare, accerta il quantum dell’imposta evasa con le regole e gli strumenti propri del rito penale. Questi, pertanto, può superare i limiti del procedimento tributario e utilizzare tutti i mezzi di prova previsti dall’ordinamento processuale penale, quali, ad esempio, la prova testimoniale, preclusa invece al giudice tributario.
Il giudice penale, quindi, sebbene debba far riferimento alla legge tributaria, può e deve disattenderla per quanto attiene agli strumenti di carattere presuntivo utilizzati in sede di accertamento per la ricostruzione indiretta della base imponibile, che confliggono con i principi generali del sistema penale. L’attività che scaturisce dalla notizia di reato, allora, è destinata a procedere in maniera del tutto autonoma rispetto a quella amministrativa tributaria, e può arrivare a quantificazioni dell’imposta evasa non congruenti o addirittura contrastanti con questa.
La pretesa dell’Amministrazione finanziaria può essere ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa escludersi che quest’ultimo pervenga – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – a un convincimento diverso, di cui, però, occorre dare specifica e congrua motivazione (cfr. Cass. nn. 40755/2015 e 5640/2012).
Ma tale motivazione, se certamente può, e deve, essere richiesta al giudice della cognizione, non è altrettanto richiedibile al giudice del riesame del provvedimento cautelare (sequestro preventivo), confrontandosi lo stesso con i dati prospettatigli dal PM e contenuti nella comunicazione di notizia di reato allegata agli atti, sulla cui base si è disposto il sequestro. Quest’ultimo giudice, infatti, a fronte di una diversa indicazione degli Uffici finanziari circa l’ammontare dell’imposta evasa, non ha strumenti di valutazione per poter ritenere che l’accertamento tributario sia quello maggiormente corretto rispetto alle risultanze dell’attività investigativa, essendo sprovvisto dei poteri istruttori necessari al fine di verificare le ragioni della diversa determinazione operata dall’Ufficio, a fronte di un calcolo diverso e superiore operato dalla GdF.