Il reato di occultamento delle scritture contabili si perfeziona al momento dell’accertamento
La successiva presentazione della documentazione contabile “occultata” non assolve il contribuente dal delitto di cui all’art. 10 del DLgs. 74/2000. Così la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 55476 depositata ieri, conferma la condanna di un libero professionista per aver occultato delle fatture emesse ed altra documentazione comprovante i redditi percepiti da terzi sostituti di imposta, così da non consentire la ricostruzione della sua situazione reddittuale relativamente a numerose annualità.
Ai sensi del citato art. 10, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
Per occultamento – ricorda la Cassazione – si intende qualunque sottrazione della documentazione alla disponibilità dei verificatori, senza bisogno che ciò si realizzi attraverso una qualche peculiare condotta, quale, ad esempio, la materiale sottrazione di essa rispetto alla sfera di libero accesso degli organi incaricati della verifica fiscale e il suo trasferimento in un luogo definibile come “nascosto”. È, viceversa, sufficiente la semplice assenza dal luogo ove dovrebbe essere custodita e la sua omessa ostensione da parte del contribuente in sede di verifica fiscale (cfr. Cass. n. 46851/2015).
Per tale ragione non viene ritenuto “scriminante” il fatto che – come nel caso in esame – il professionista abbia provveduto a consegnare la documentazione mancante successivamente alla verifica eseguita dalla Guardia di Finanza, poiché il momento consumativo di tale reato coincide con il verificarsi dell’impossibilità di ricostruire i redditi o il volume d’affari e l’attività successiva di collaborazione può, al più, rilevare rispetto alla intensità del dolo o alla quantificazione della pena. Si tratta, per taluni, di un reato istantaneo con effetti permanenti, per altri, di un vero e proprio reato permanente, ma in entrambi i casi l’illecito è pienamente integrato nel momento e nel luogo in cui avvengono la distruzione o la mancata esibizione conseguente all’occultamento (tra le altre, Cass. n. 38511/2016).
Pertanto, il recupero della documentazione non esibita ai verificatori e la sua successiva presentazione all’Agenzia delle Entrate valgono ad interrompere la “flagranza del reato” ancora in atto, ma non possono escluderne l’avvenuto perfezionamento e, dunque, la sua punibilità.
In caso contrario, non sarebbe punibile il mero occultamento – che potrebbe essere sempre sanato da una successiva presentazione della documentazione – ma soltanto la definitiva distruzione. La scelta del legislatore è, invece, quella di punire un interesse strumentale rispetto al corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale: cioè, la “mancanza” della documentazione obbligatoria, originata alternativamente dalla distruzione o dall’occultamento.
Da ciò – cioè dal fatto che il reato si consideri già perfezionato e consumato – consegue l’impossibilità di configurare l’istituto della desistenza volontaria, quale circostanza in grado di escludere la rilevanza solo in caso di delitto tentato. Di per sé, sarebbe ipotizzabile il tentativo di occultamento o distruzione delle scritture contabili, ma la desistenza (cioè, l’ostensione della documentazione) dovrebbe avvenire prima del momento in cui la situazione antigiuridica si sia materialmente verificata e il bene protetto sia stato effettivamente leso (corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale).
Nel caso in esame, tra l’altro, era poi stato possibile ricostruire il reddito conseguito negli anni di imposta in contestazione, ma anche tale circostanza non viene ritenuta dirimente dalla Cassazione. Per effettuare la loro attività di verifica, gli accertatorierano, infatti, dovuti ricorrere alla consultazione della banca dati nella diretta disponibilità della polizia giudiziaria e all’acquisizione di documentazione e testimonianze da parte dei sostituti di imposta.
Ciò consente di ritenere integrato il delitto, in quanto la disposizione dell’art. 10 del DLgs. 74/2000 è volta a tutelare l’interesse dello Stato alla trasparenza fiscale del contribuente e a sanzionare condotte che dolosamente impediscono la ricostruzione dell’imponibile al fine di evadere le imposte sul reddito o sul valore aggiunto; ciò non richiede la materiale impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari, essendo sufficiente la necessità di ricorrere a documentazione ulteriore rispetto a quella distrutta o occultata (Cass. n. 13212/2017 e n. 11480/2015).