Anche se l’art. 2374 c.c. riconosce un diritto potestativo della minoranza, vale il divieto di abuso

Di Maurizio MEOLI

L’art. 2374 c.c. – ai sensi del quale i soci intervenuti che riuniscono un terzo del capitale rappresentato nell’assemblea, se dichiarano di non essere sufficientemente informati sugli oggetti posti in deliberazione, possono chiedere (una sola volta) che l’assemblea sia rinviata a non oltre cinque giorni – non configura una mera “facoltà” di avanzare una richiesta di rinvio, con ampia discrezionalità dell’assemblea di deliberare al riguardo, ma un “diritto potestativo” a “ottenere” il differimento dei lavori assembleari, salvo il caso in cui non si possa configurare l’abuso di tale diritto da parte della minoranza.
A precisarlo, intervenendo per la prima volta in materia, è la Cassazione, nella sentenza n. 29792, depositata ieri.

A supporto di tale conclusione i giudici di legittimità ritengono “in buona misura condivisibili” le argomentazioni formulate dai giudici d’appello (in linea con la prevalente dottrina e giurisprudenza di merito). Si era, infatti, osservato come la norma, nell’intento di assicurare decisioni pienamente consapevoli all’esito di una discussione approfondita, tenda a escludere richieste meramente ostruzionistiche attraverso la previsione di un termine di rinvio contenuto e la possibilità di esercitare il diritto una sola volta; contemperando, per tal via, l’interesse dei soci a una maggiore informazione sui temi all’ordine del giorno e quello di assicurare uno svolgimento tempestivo ed efficiente dell’attività assembleare. Ma – secondo la decisione d’appello impugnata – l’art. 2374 c.c. recherebbe anche una disciplina preventiva dell’abuso del potere in questione, con conseguente impossibilità di sindacare il grado di sufficienza delle informazioni poste a disposizione dei soci (in pratica, sarebbe impossibile abusare del diritto al rinvio).

In relazione a quest’ultimo passaggio, la Suprema Corte ritiene necessario intervenire con integrazioni e, in parte, anche con correzioni. Occorre, infatti, considerare che la valorizzazione degli obblighi di correttezza e buona fede sanciti dagli artt. 1175 e 1375c.c. ha portato all’affermazione del principio generale secondo il quale non è lecito abusare dei propri diritti per conseguire finalità – sostanzialmente lesive di interessi di più ampia portata o derivanti da specifici accordi contrattuali – che trascendono quelle tutelate dalla norma (tra le altre, Cass. nn. 20106/2009 e 29776/2008).
Tale principio, venuto in rilievo in materia contrattuale, ha avuto applicazioni in ambito lavoristico (Cass. n. 17968/2016), bancario (Cass. n. 18947/2005) e tributario. In quest’ultimo contesto, anzi, oltre ad applicazioni giurisprudenziali (Cass. SS.UU. n. 15029/2009), ha anche trovato riscontri normativi (cfr. l’abrogato art. 37-bis del DPR 600/73 e il vigente art. 10-bis della L. 212/2000).

Ma il principio in questione emerge anche dalla decisione delle Sezioni Unite n. 26617/2007, secondo la quale, nelle obbligazioni pecuniarie il cui importo sia inferiore al limite all’utilizzo del contante e per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare. Il creditore, di contro, non può rifiutare il pagamento effettuato con moneta avente corso legale, ma può rifiutare il pagamento con assegno circolare, a condizione, però, che ne sussistano giustificati motivi; un rifiuto in assenza di giustificazioni, infatti, sarebbe contrario alla regola che impone agli obbligati di comportarsi secondo correttezza e buona fede.

In ambito societario, poi, il principio attiene, normalmente, alla posizione della maggioranza rispetto ai soci di minoranza, conducendo all’invalidità di quelle delibere in cui si provi che il voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci ovvero che sia stato in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza (tra le altre, Cass. nn. 2334/20121361/2011 e 27387/2005).
Nel caso di specie, invece, la società che si opponeva alla decisione d’appello (che aveva invalidato la delibera assembleare) prospettava un’applicazione del principio del divieto di abuso del diritto sostanzialmente invertita, essendo il comportamento abusivo da imputare a una minoranza.

Ad ogni modo – osserva la Suprema Corte – stante la sua portata generale, non può a priori escludersene l’applicazione. Né vale contro tale estensione il fatto che ci si trovi in presenza di un diritto potestativo. Tale principio non impone alla minoranza un comportamento prestabilito, ma rileva solo come limite esterno all’esercizio della pretesa, nell’intento di contemperare gli opposti interessi sopra ricordati. Il tutto suscettibile di un controllo successivo in sede giurisdizionale (cfr. Trib. Roma 14 giugno 2005).

A fronte di tutto ciò, peraltro, la Cassazione sottolinea che i giudici d’appello, pur avendo premesso l’impossibilità di configurare l’abuso del diritto in ordine all’art. 2374 c.c., si erano poi ampiamente soffermati sulle ragioni della richiesta di rinvio, analizzando le condotte delle parti e pervenendo alla conclusione dell’inesistenza di una violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede da parte dei soci di minoranza. Per tale motivo, quindi, il giudizio espresso in sede d’appello risulta comunque non censurabile in sede di legittimità.