Il mancato coordinamento tra le nuove norme potrebbe determinare fenomeni di tassazione sulla società partecipata
La rinuncia dei soci ai crediti costituisce, con tutta probabilità, il mezzo più tipico con cui la società partecipata viene dotata dei mezzi finanziari necessari per la sua attività, sia nei contesti di crisi (in cui vi è necessità di sostenere il patrimonio netto eroso dalle perdite), sia nelle situazioni in cui si prospettano nuovi investimenti.
Per le rinunce operate nel 2017 non cambiano nella sostanza rispetto al passato né le impostazioni contabili di riferimento, né i relativi riflessi fiscali. Per quanto riguarda, infatti, le prime, la rinuncia finalizzata alla patrimonializzazione della partecipata trasforma, per la partecipata stessa, il debito verso il socio in una riserva di patrimonio netto, e aumenta per il socio il costo di acquisto della partecipazione iscritto nell’attivo.
Dal punto di vista fiscale, continuano ad applicarsi le regole contenute negli artt. 88comma 4-bis, 94 comma 6 e 101 comma 7 del TUIR, secondo le quali:
– per la partecipata, la rinuncia determina una sopravvenienza attiva tassata per la parte che eccede il valore fiscale del credito;
– per il socio, che deve comunicare alla partecipata il valore fiscale del credito, l’ammontare della rinuncia si aggiunge al costo fiscale della partecipazione nel limite del valore fiscale del credito oggetto della rinuncia stessa.
Così, se la società A vanta un credito di 500.000 euro verso la partecipata B e questo credito è stato svalutato per 200.000 euro con effetto fiscale, la rinuncia operata da A determina:
– in capo a B, un incremento del patrimonio netto contabile di 500.000 euro e una sopravvenienza tassata di 200.000 euro (da gestire con una variazione in aumento in dichiarazione dei redditi);
– in capo ad A, un incremento del costo di iscrizione in bilancio della partecipazione, riconosciuto fiscalmente solo per 300.000.
Importanti chiarimenti sul tema si rinvengono nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 124 del 13 ottobre 2017, secondo cui il meccanismo in questione non riguarderebbe i crediti vantati verso la partecipata dai soggetti non imprenditori(tipicamente, le persone fisiche), per i quali non sussisterebbero mai differenze tra valore nominale e valore fiscale del credito (e ciò si rifletterebbe anche sull’assenza di obblighi di comunicazione alla partecipata del valore del credito all’atto della rinuncia).
Limitando l’analisi ai rapporti intersocietari, emergono comunque difficoltà operative nel caso in cui i crediti verso la società partecipata vengano valutati con i criteri del costo ammortizzato e dell’attualizzazione. In questi casi, a fronte di un finanziamento (ad esempio infruttifero) di 500.000 euro, la partecipata iscrive inizialmente quale debito verso il socio (ad esempio) 460.000 euro, allocando a riserva di patrimonio netto la differenza di attualizzazione; il debito si “espande” poi lungo la durata del prestito per effetto dell’iscrizione a Conto economico di interessi passivi impliciti.
Allo stesso modo, il socio iscrive quale credito verso la partecipata l’importo di 460.000 euro, allocando la differenza di 40.000 euro nella voce “Partecipazioni”; il credito si incrementa poi sino a raggiungere i 500.000 euro per effetto dell’iscrizione, anno dopo anno, degli interessi attivi impliciti.
Dal punto di vista fiscale, la materia è regolata dall’art. 5 comma 4-bis del DM 8 giugno 2011, secondo cui, se il prestito è finalizzato alla patrimonializzazione della partecipata, non assumono rilievo fiscale né, per la partecipata, la riserva di patrimonio netto che accoglie la differenza di attualizzazione (nell’esempio di cui sopra, 40.000 euro), né, per il socio, la stessa differenza iscritta nella voce “Partecipazioni”.
Per effetto della “disattivazione” della derivazione rafforzata il valore fiscale del credito ammonterebbe, quindi, a 460.000 euro e all’atto della rinuncia (la quale, a rigore, ha ad oggetto l’intero ammontare di 500.000) si genererebbe in capo alla partecipata una sopravvenienza imponibile di 40.000 euro. Questa conclusione, che segue il dato formale delle norme, risulta ancor più critica se si pensa che non assumono valore fiscale neanche gli interessi figurativi iscritti lungo la durata del prestito, sicché il valore fiscale del credito rimarrebbe ancorato al dato di originaria iscrizione in bilancio di 460.000 euro.
La conclusione a cui si perverrebbe non pare del tutto razionale (anche se, sempre ragionando in base al dato di legge, la sopravvenienza che viene “scaricata” sulla partecipata viene controbilanciata da un più basso valore fiscale della partecipazione per il socio). Se gli effetti sopra descritti non fossero quelli voluti dal legislatore, e derivassero solo da un non perfetto coordinamento tra le varie disposizioni, l’unica soluzione potrebbe essere rappresentata dalla possibilità di computare ex post, all’atto della rinuncia, la differenza di attualizzazione nel valore fiscale del credito.