In Italia è difficile raggiungere le finalità della «business judgement rule» perché l’assenza di una chiara regola lascia spazi interpretativi troppo ampi

Di Roberto CRAVERO

Uno dei primari obiettivi degli enti societari è la ricerca del più valido assetto organizzativo e di governo, fondamentale per un efficace svolgimento delle funzioni aziendali e per assicurare agli stakeholder le condizioni di una sana e corretta gestione.
In tema di governo d’impresa, la giurisprudenza di merito e di legittimità ha più volte contestato il configurarsi di specifiche responsabilità in capo ad amministratori, a fronte di danni subìti dall’impresa e connessi alla cattiva gestione.

Tale tematica è estremamente delicata, in quanto occorre bilanciare adeguatamente il trade off fra efficienza economica delle decisioni assunte e protezione degli interessi dei soci e dei creditori: se da un lato è corretto poter esercitare azioni di rivalsa verso i responsabili delle cattive scelte gestionali, dall’altro è altrettanto importante evitare che il comportamento degli amministratori sia primariamente orientato alla tutela della propria responsabilità individuale. Ove così fosse, infatti, potrebbe scoraggiarsi il perseguimento di quelle operazioni che, seppur rischiose, consentirebbero un interessante ritorno economico per la società.

Negli Stati Uniti, la giurisprudenza ha da tempo previsto una regola procedurale, la c.d. Business Judgment Rule (“BJR”), secondo la quale una decisione assunta dagli amministratori non verrà esaminata nel merito dal giudice, se non ha violato un duty of care (dovere di diligenza) o un duty of loyalty (dovere di lealtà).
La BJR limita, sino all’annullamento, l’eccessiva esposizione degli amministratori alla responsabilità civile, agevolando l’assunzione dell’incarico da parte di persone con esperienza e competenza professionale, che si sentiranno più libere di agire, confortate dal fatto che l’applicazione di tale regola renderà irrilevante la circostanza che le decisioni da esse assunte nell’espletamento del mandato abbiano (o meno) prodotto per la società amministrata effetti anche dannosi.

Verificata l’assenza di circostanze compromettenti la buona fede e la correttezza del comportamento, la BJR rende non sindacabili la responsabilità degli amministratori e la ragionevolezza della modalità di assunzione delle decisioni, anche qualora, in conseguenza delle stesse, si siano prodotti effetti non positivi in capo all’ente amministrato. Come detto, alla base di tale principio vi è la volontà di evitare nella gestione aziendale il perseguimento di politiche eccessivamente conservative.

Nell’Europa continentale manca, invece, una norma di rango primario che consenta al giudice di interpretare in modo estensivo il concetto della responsabilità civile e contrattuale degli amministratori.
In Italia, alla responsabilità da inadempimento degli amministratori si applicano i principi generali in tema di inadempimento delle obbligazioni di cui all’art. 1218 c.c., in quanto il vincolo che lega gli amministratori alla società è un vincolo di natura contrattuale.
Secondo tale norma, il debitore che non esegue la prestazione deve risarcire il danno, tranne il caso in cui provi che l’inadempimento è stato determinato da un’impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile. Ai sensi dell’art. 2697 c.c., si dovrà provare l’inadempimento dell’amministratore e il danno da esso generato. La prova dell’inadempimento consiste nel rendere evidente la violazione di due obbligazioni: amministrare la società con diligenza e perseguire l’interesse sociale, senza conflitti d’interessi.

Il dovere di diligenza, previsto dall’art. 2392 c.c., richiede che l’amministratore svolga un’adeguata attività istruttoria in via preventiva all’assunzione di ogni scelta, al fine di apprezzarne il rischio ad essa connesso (Cass. nn. 18231/2009 e 28669/2013).
Il dovere di perseguire l’interesse sociale in assenza di conflitti richiede, invece, che l’amministratore assuma una decisione razionalmente coerente con le verifiche preliminari effettuate, per evitare scelte sbagliate e/o dannose per la società (Trib. Roma n. 19198/2015).

L’insindacabilità delle scelte di gestione trova dunque un limite nel corollario della necessaria ragionevolezza delle stesse, nonché nella valutazione della diligenza mostrata nell’apprezzare i margini di rischio connessi all’operazione (Cass. n. 15470/2017).
Assunto tale impianto normativo, in Italia difficilmente vengono raggiunte le finalità proprie della BJR, in quanto l’assenza di una chiara regola idonea a definire in modo inequivocabile il perimetro delle responsabilità degli amministratori lascia ai singoli giudici, chiamati a valutare le diverse fattispecie di responsabilità, spazi interpretativi troppo ampi.

La CONSOB, nel quaderno n. 11/2016, approfondisce alcuni aspetti sulla tematica e auspica l’introduzione in Europa di una disciplina armonizzata e di rango primario della BJR, scongiurando interventi autonomi e non coordinati dei vari Stati. La BJR, per la CONSOB, dovrebbe infatti essere considerata a tutti gli effetti una regola di ordine pubblico economico, per non lasciare ai giudici (diversi tra loro e con sensibilità giuridiche e culture differenti) margini d’interpretazione troppo ampi su tematiche così delicate.