La Cassazione ripropone i dubbi di legittimità costituzionale della durata fissa decennale

Di Maurizio MEOLI

La Cassazione, con la sentenza n. 52613/2017, riapre la questione della legittimità costituzionale degli artt. 216 ultimo comma e 223 ultimo comma del RD 267/42 nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti di bancarotta fraudolenta previsti in detti articoli conseguano obbligatoriamente, per la durata di 10 anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio dell’impresa commerciale e della incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

Secondo l’orientamento maggioritario, la durata di cui si discute è fissata inderogabilmente, tanto emergendo dal dato testuale della disposizione, con conseguente esclusione della regola della parametrazione alla pena principale dell’art. 37 c.p. (cfr., tra le altre, Cass. nn. 17690/2010 e 39337/2007). Questa interpretazione, pur contrastata da altra ricostruzione fondata sulla necessità di una lettura costituzionalmente orientata (cfr. Cass. nn. 23720/2010 e 9672/2010), risulta assolutamente consolidata dopo l’inammissibilità decisa nella sentenza della Consulta n. 134/2012, essendosi in più occasioni ritenuto che tale la pronuncia avrebbe “implicitamente” confermato la validità dell’interpretazione recepita dall’indirizzo maggioritario (cfr. Cass. nn. 11257/2013 e 30341/2012).

I giudici delle leggi, in particolare, hanno stabilito che la soluzione prospettata dai giudici remittenti – ovvero l’aggiunta delle parole “fino a” nell’art. 216 comma 4 L. fall. – sarebbe solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione, dal momento che sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata, ma non in misura fissa (ad es., da 5 a 10 anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva. L’addizione normativa richiesta è stata, quindi, reputata soluzione non costituzionalmente obbligata ed eccedente i poteri di intervento della Corte Costituzionale, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore.

La Suprema Corte, come evidenziato, riapre ora la questione. Quanto al profilo della “rilevanza” nel caso di specie, innanzitutto, sottolinea come non sia condivisibile la tesi (della sentenza impugnata) secondo cui essa non fosse ammissibile perché la Cassazione si era già pronunciata con la sentenza di annullamento con rinvio. Ma l’unico elemento decisivo è che la norma della cui legittimità costituzionale si dubita dovrebbe essere definitivamente applicata solo all’esito del giudizio in corso. Allo stesso modo non è condivisibile la decisione impugnata nella parte in cui ha considerato la questione “inammissibile” perché la Corte Costituzionale n. 134/2012 si è già espressa in tal senso.

In quell’occasione, infatti, si è anche sottolineata l’opportunità che il legislatore realizzasse una riforma del sistema delle pene accessorie che lo rendesse pienamente compatibile con i principi della Costituzione (in particolare con l’art. 27 comma 3). Ma a tale monito non ha fatto seguito alcun intervento; il che induce a sollecitare una nuova pronuncia volta a porre rimedio a una illegittimità costituzionale già paventata e sulla cui “manifesta fondatezza” non pare potersi dubitare.

È infatti configurabile, in primo luogo, un contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost., attesa la rigidità dispositiva della prescrizione penale a fronte del variare della situazione concreta; caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale.

Con riguardo agli artt. 3, 4 e 41 Cost., poi, l’inflessibile rigore sanzionatorio di cui si discute determina una ingiustificata ed indiscriminata incidenza sulla possibilità dell’interessato di esercitare il proprio diritto al lavoro, non soltanto come fonte di sostentamento, ma anche come strumento di sviluppo della propria personalità, con una drastica e non proporzionata compressione del diritto di iniziativa economicaesercitabile anche attraverso l’attività d’impresa. Il tutto in contrasto con i principi che indirizzano a fini sociali l’iniziativa economica privata e che ne riconoscono la libertà.

Dubbi, infine, si presentano anche rispetto all’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 CEDU e 1 Protocollo n. 1 CEDU. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, la nozione convenzionale di “vita privata”, di cui all’art. 8 CEDU, comprende anche le attività professionali e commerciali, rispetto alle quali le limitazioni derivanti dall’applicazione della pena accessoria devono considerarsi quali ingerenze nel godimento del diritto rispetto alla vita privata e, come tali, devono non solo essere previste dalla legge e perseguire uno scopo legittimo, ma anche essere proporzionate rispetto a tale scopo (cfr. CEDU 23 marzo 2006 n. 77962/01).

È, quindi, dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 4, 27, 41 e 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 216 ultimo comma e 223 ultimo comma del RD 267/42, nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguano obbligatoriamente le previste pene accessorie per la durata di 10 anni. Il giudizio, di conseguenza, è sospeso e gli atti immediatamente trasmessi alla Corte Costituzionale.