Le decisioni del giudice tributario non incidono sull’applicazione delle misure di prevenzione
Parallelamente alla recente riforma del Codice antimafia ad opera della L. 161/2017, la Corte di Cassazione si confronta con molta frequenza con la confisca di prevenzione, a riprova di come il DLgs. 159/2011 abbia, fin dalla sua prima approvazione, ampliato l’ambito di applicazione di tale strumento di contrasto all’accumulo di patrimoni illeciti.
In una sentenza depositata ieri, viene, tra l’altro, ribadita l’applicabilità di tali norme al soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi fiscali (Cass. n. 53636/2017). I giudici di legittimità hanno, infatti, confermato la confisca di prevenzione ai sensi dell’art. 24 del DLgs. 159/2011 nei confronti del denaro e dei beni sospettati di essere stati illecitamente accumulati dagli amministratori di una srl, a partire da metà degli anni novanta, per una somma che al valore attuale corrisponde a più di due milioni di euro.
A fondamento di tale confisca vi è la pericolosità sociale degli imputati quali soggetti che vivono abitualmente, anche solo in parte, con i proventi di attività delittuose (artt. 1lett. b) e 4 lett. c) del DLgs. 159/2011).
Tale provvedimento non deriva, infatti, dalla prova di un reato di cui il soggetto è ritenuto responsabile dopo una sentenza di condanna, bensì dal riconoscimento – su base indiziaria – di una pericolosità sociale particolarmente qualificata, intesa come probabilità di commissione di ulteriori reati. I citati articoli 1 e 4 – rimasti per tali aspetti immutati anche dopo la recente riforma del DLgs. 159/2011 – hanno riunito le diverse forme di pericolosità sociale, permettendo l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale a tutte le categorie di persone individuate nel tempo dal legislatore ed estendendo una possibilità ammessa fino ad allora solo nei confronti dei patrimoni mafiosi.
Con queste previsioni, l’attenzione viene rivolta anche a quei patrimoni che sono il frutto, in via ripetuta, seriale e abituale, di numerose condotte illecite, non necessariamente mafiose, tra cui le frodi in materia fiscale e previdenziale e le bancarotte.
Nel caso affrontato dalla sentenza in esame, dagli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria erano, effettivamente, emerse contestazioni per i reati di corruzione, truffa aggravata in danno dello Stato realizzata mediante la falsificazione di documenti e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, evasione fiscale e associazione per delinquere alla luce della rete di rapporti con società compiacenti per l’emissione di tali fatture. In particolare, l’attività della società si incentrava sulla formazione professionale ed era stato accertato un accordo di natura corruttiva con un assessore regionale per affidare corsi di formazione in un numero esorbitante (circa 300 all’anno) finanziati dalla Regione stessa, a fronte di una percentuale sul finanziamento corrisposta al pubblico ufficiale corrotto.
In un periodo continuativo relativo a numerose annualità, si evidenziava un’attività truffaldina nei confronti dell’ente pubblico e dell’Erario, garantita e potenziata dal rapporto illecito con il citato assessore, attraverso cui veniva stimato un guadagno pari a circa dieci milioni di euro.
Punto centrale nella confisca di prevenzione è, però, l’identificazione del collegamento tra gli illeciti e il denaro oggetto del provvedimento, per evitare che vengano sottratti beni acquisiti con mezzi legali. La confiscabilità dei beni è in stretto rapporto di derivazione con la pericolosità, non solo nel senso che quest’ultima è presupposto della prima, ma anche nel senso che non può disporsi confisca di quei beni che non siano stati acquistati nel periodo temporale in cui la condotta del proposto non si è connotata come espressiva di pericolosità sociale (cfr. Cass. n. 8389/2016).
Nel procedimento in esame, ha contribuito a tale identificazione la comparazione tra l’analisi dei flussi di ricchezza leciti e dichiarati e le acquisizioni patrimoniali effettive conseguite anche indirettamente dalla società; analisi realizzata nei giudizi di merito con l’ausilio di consulenti tecnici, le cui valutazioni avevano in effetti portato a escludere la confisca di alcuni cespiti.
A tal fine, viene richiamata anche la pronuncia delle Sezioni Unite secondo cui spetta alla parte pubblica l’onere della prova in ordine alla sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale nonché all’illecita provenienza, da dimostrare anche in base a presunzioni. Nondimeno, al proposto è riconosciuta la facoltà di offrire prova contraria e liberatoria, atta a neutralizzare quelle presunzioni, in guisa da dimostrare la legittima provenienza degli stessi beni (Cass. SS.UU. n. 4880/2015).
Da evidenziare, infine, come in tale accertamento le decisioni emesse dal giudice tributario e le determinazioni assunte nel procedimento amministrativo fiscale (ad esempio, rispetto all’effettività delle operazioni delle fatture in contestazione) nonabbiano valore vincolante rispetto all’applicazione delle misure di prevenzione, né possano prevalere rispetto a quanto emerso nel procedimento penale, restando soggette al “libero apprezzamento” del giudice competente.