Il Ddl. di bilancio 2018 modifica l’art. 20 del DPR 131/86 escludendo che l’interpretazione degli atti possa tenere conto di altri atti collegati
Qualche incertezza in meno all’orizzonte, ai fini delle imposte d’atto, per le operazioni di conferimento d’azienda o scissione e successiva cessione delle partecipazioni.
Preso atto che, nemmeno con la codificazione del principio generale dell’abuso del diritto nell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, si è riusciti a riportare la Corte di Cassazione sui giusti binari applicativi dell’art. 20 del TUR, il legislatore si dimostra intenzionato a un ulteriore e quanto mai opportuno intervento, questa volta agendo direttamente sul testo del predetto articolo.
L’art. 13 del disegno di legge di bilancio 2018 prevede infatti alcune modifiche all’art. 20 del DPR 131/86 volte a chiarire, auspicabilmente una volta per tutte, che la possibilità per gli uffici di applicare l’imposta sulla base del contenuto effettivo dell’atto, riqualificandolo quindi al di là del nomen iuris attribuito ad esso dalle parti in sede di registrazione, può avere luogo “sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
L’intervento è fondamentale perché, a differenza di quanto sempre sostenuto dalla dottrina assolutamente maggioritaria e confermato da larga parte della giurisprudenza di merito, già nelle more della codificazione del principio generale dell’abuso del diritto nell’art. 10-bis della L. 212/2000, la Corte di Cassazione aveva avuto modo di esprimersi in senso favorevole alla tesi della utilizzabilità dell’art. 20 del DPR 131/86 quale norma antielusiva, se non nella forma, negli effetti sostanziali che da essa potevano discendere.
Né la sopravvenuta codificazione del principio generale antiabuso nell’art. 10-bis della L. 212/2000 aveva determinato mutamenti sostanziali negli indirizzi della Suprema Corte, nel senso che, se ovviamente era divenuta insostenibile la tesi della natura antielusivadella norma recata dall’art. 20 del DPR 131/86, ciò non di meno la Cassazione ha dato vita a una vera e propria “ipocrisia interpretativa” tale per cui, pur non avendo questa norma valenza antiabuso, le veniva tuttavia riconosciuta la possibilità di operare riqualificazioni degli atti non già sulla base del loro effettivo contenuto giuridico, bensì sulla base dell’effetto economico che realizzano in correlazione con altri, che è in verità caratteristica propria di una norma antiabuso (tra le tante, si vedano Cass. n. 1955/2015, n. 8542/2016 e n. 9578/2016).
Questa “ipocrisia interpretativa” è foriera di determinare distorsioni evidenti.
In primo luogo, questo orientamento della Corte di Cassazione espone i contribuenti ad accertamenti fondati su “riqualificazioni non degli effetti giuridici, ma degli effetti economici”, cioè secondo le logiche tipiche di una norma antiabuso che contrasta l’uso distorto delle forme giuridiche, senza però consentire agli stessi di beneficiare delle norme di tutela procedimentale e finanziaria che l’art. 10-bis della L. 212/2000 prevede, a differenza dell’art. 20 del DPR 131/86.
Questo significa, ad esempio, il venir meno per l’Amministrazione finanziaria dell’obbligo di preventiva richiesta di chiarimenti al contribuente, ma anche della possibilità per il contribuente di formulare preventivamente una istanza di interpello “antiabuso” nei confronti dell’Agenzia delle Entrate.
In secondo luogo, nell’istante in cui nega la natura antielusiva dell’art. 20 del DPR 131/86, pur consentendogli di fatto di operare come tale, questo orientamento della Corte di Cassazione rende irrilevante la sussistenza o meno di valide ragioni extrafiscali non marginali e ottiene il mirabile effetto di negare a priori che, nell’ambito delle imposte d’atto, possa esservi quel principio di legittima pianificazione fiscale che nell’art. 10-biscomma 4 della L. 212/2000 è stato addirittura esplicitato a livello normativo proprio per rafforzarne agli occhi dell’interprete la cogenza.
È infatti evidente che una riqualificazione in “cessione d’azienda” di un conferimento d’azienda e successiva cessione della partecipazione, effettuato in forza di una norma che pretende di riqualificare gli atti in base agli effetti economici, senza però tener conto della sussistenza o meno di valide ragioni extrafiscali non marginali, impone implicitamente di utilizzare sempre e comunque la soluzione giuridica fiscalmente più onerosa tra le alternative possibili.
Se, come è a questo punto probabile, diverranno legge le modifiche all’art. 20 del DPR 131/86 recate dall’art. 13 del disegno di legge depositato dal Governo e da oggi all’esame del Parlamento, queste problematiche potranno considerarsi superate, con buona pace della Corte di Cassazione.
Giova inoltre sottolineare due ulteriori aspetti di una certa significatività che emergono dalla Relazione tecnica che accompagna il disegno di legge.
Il primo è che viene espressamente affermato che “non rilevano, per la corretta tassazione dell’atto gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre a una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione d’azienda la cessione totalitaria di quote)”.
Il secondo è che, venendo qualificata la norma come “chiarificatrice”, nel senso che, senza innovare, “si limita esclusivamente a precisare le modalità con cui gli uffici devono effettuare valutazioni ai fini del controllo, in tema di imposta di registro” (tanto da venire considerata non produttiva di “effetti in termini di gettito”), pare corretto ritenere che risulterà applicabile anche con riferimento a tutte le contestazioni e contenziosi già in essere.