Da esaminare il diverso trattamento sanzionatorio delle due ipotesi ex artt. 2 e 3 del DLgs. 74/2000
Nel diritto penale-tributario le condotte di dichiarazione fraudolenta sono sanzionate da due differenti norme caratterizzate da diversa gravità: l’art. 2 e l’art. 3 del DLgs. 74/2000.
La prima attiene alle evasioni “più classiche”, in cui nelle dichiarazioni relative alle imposte dirette o all’IVA ci si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; nel senso che tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (art. 2 comma 2 del DLgs. 74/2000).
L’art. 3 del DLgs. 74/2000, invece, ha un carattere sussidiario (“fuori dai casi previsti dall’art. 2”) e residuale (la rubrica, infatti, parla di “altri artifici” rispetto all’uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti). Tale fattispecie è stata profondamente modificata dal DLgs. 158/2015. Oggi il reato si consuma quando, nelle medesime dichiarazioni di cui sopra, si indicano elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, “compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria”. Anche in esito alle novità apportate dal DLgs. 158/2015, resta centrale la previsione di soglie di punibilità – attinenti all’imposta evasa o agli elementi attivi sottratti all’imposizione o a quelli passivi fittizi – al di sotto delle quali il fatto non assume rilevanza penale.
Proprio alla luce delle modifiche intervenute in seno all’art. 3, è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale dal Tribunale di Palermo (ordinanza del 13 luglio 2017, pubblicata sulla G.U. n. 43 del 25 ottobre scorso). In particolare, ci si interroga sulla ragionevolezza e sul rispetto del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) della scelta di un diverso trattamento delle due ipotesi di dichiarazione fraudolenta basato sulla previsione/non previsione di una soglia di punibilità (mentre la pena è per entrambe le condotte la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni). La scelta di ricorrere allo strumento delle soglie di punibilità, sebbene appartenente alla discrezionalità del legislatore, deve, infatti, rispettare il canone della ragionevolezza, che impone di non differenziare, in assenza di giustificate istanze punitive, il trattamento sanzionatorio in relazione a comportamenti di uguale gravità.
L’utilizzazione delle soglie solo in relazione a determinate condotte dovrebbe, allora, essere fondata su un diverso disvalore delle stesse che ne giustifichi la differente risposta dell’ordinamento penale; mentre, secondo l’interpretazione seguita dal Tribunale di Palermo, l’elemento specializzante volto a qualificare la fattispecie incriminatrice descritta dall’art. 2 è, oggi, rappresentato solo dall’efficacia probatoria (sulla falsariga delle norme tributarie) della fattura o del documento analogo utilizzato a supporto della dichiarazione. La fattispecie di cui al successivo art. 3 trova, infatti, applicazione quando l’agente indica elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi non avvalendosi di fatture o altri documenti aventi un contenuto probatorio analogo alle fatture falsi, bensì ponendo in essere gli altri artifici descritti.
Il Tribunale ricorda come, anche alla luce delle prime interpretazioni seguite alla riforma del 2015, l’ipotesi di reato delineata dall’art. 2 si differenzierebbe, sia strutturalmente che funzionalmente da quella tratteggiata dall’art. 3, non tanto per la natura del falso ivi contemplata quanto per il rapporto di specialità reciproca intercorrente tra le due norme (cfr. la Relazione III/05/2015 del 28 ottobre 2015, p. 15).
Ulteriore indice della sostanziale omogeneità tra le due disposizioni si potrebbe ricavare dalla sovrapposizione delle definizioni di “operazioni inesistenti” (art. 2) e di “operazioni simulate” (art. 3), che permetterebbe di qualificare le operazioni simulate ed apparenti sulla base dell’una o dell’altra fattispecie esclusivamente sulla base della sussistenza o meno del documento contabile nonché della eventuale copertura cartolare offerta dalla fattura.
Di fatto, tale impostazione ipotizza l’esistenza di un unico genus di condotte illecite qualificabili come “frode fiscale” (come ipotizzato anche a livello comunitario), all’interno del quale le differenze di trattamento (per il tramite delle soglie di punibilità) devono essere giustificate da valutazioni fondate sulla diversa offensività del fatto e non unicamente sulla efficacia probatoria degli strumenti utilizzati. Nel caso in esame, invece, quanto meno in astratto, le condotte descritte dall’art. 3 possono rappresentare, per la loro particolare insidiosità, un pericolo concreto uguale, se non più elevato, per il bene giuridico tutelato, rispetto a quelle contemplate dal precedente art. 2.
Il Tribunale chiede, così, alla Corte Costituzionale di dichiarare l’illegittimità dell’art. 2 del DLgs. 74/2000 nella parte in cui non prevede le medesime soglie inserite nell’art. 3 comma 1 (soglie, a dire il vero, di non chiarissima formulazione).